Life in Progress

Un giorno, qualcuno mi ha scritto che forse nel silenzio della scrittura, a volte, si incunea la vita. Nell’ultimo mese, ho lasciato l’Italia, sono approdata su due isole greche, ho attraversato il Portogallo, sono ritornata a Montmartre, e tutto è rimasto intrappolato sul bordo degli occhi, nei nodi allo stomaco, nella musica che continua a suonare nelle orecchie.

Il tempo è scivolato tra una partenza e l’altra e, alla fine, quasi senza accorgermene, una mattina mi sono seduta su un aereo all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi e, dopo due film, un libro e almeno dieci gradi in più e tredici ore di traversata, sono atterrata a Los Angeles, a fare la fila all’ufficio immigrazione in uno degli aeroporti più umani e intuitivi dove abbia mai messo piede. E ancora non sono riuscita a rispondere a nessuno tra tutti gli amici che mi hanno scritto, chiesto, fatto un cenno da lontano. Come un coprifuoco emozionale, che mi ha lasciata in apnea.

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Secondo il mio visto turistico, nei prossimi tre mesi mi si può trovare in una cittadina a est di Los Angeles, di nome Monrovia, o giù di lì. Quarta città più antica della contea, poco meno di 40.000 abitanti, è incastonata ai piedi delle colline di San Gabriele, a un passo da Pasadena. Lunghe avenue, strade gigantesche, palme, corvi, scoiattoli e, all’orizzonte, le nuvole che si sgonfiano sulle punte delle montagne. Tra le principali attrazioni, Canyon Park, che si arrampica sul lato settentrionale della città, tra boschi, cascate e sentieri, e un minuscolo ma estremamente curato museo cittadino, dove Mark è a disposizione dei curiosi per raccontare la storia di Walter Botts, tra i residenti illustri della città, lo zio Sam che, tuba in testa e indice intimidatorio, reclutava i soldati per la Seconda Guerra Mondiale dal manifesto più celebre della storia d’America, e di come Monrovia sia conosciuta nella West Coast per le antiche stazioni di servizio della Route 66 e per gli orsi bruni, icona cittadina, in cui è facile imbattersi passeggiando per la città (!).

Non avendo un’auto e in mancanza di validi mezzi di trasporto su cui contare, ho passato le prime tre giornate a vagabondare ipnotizzata per la città, memorizzando la successione delle strade e dei viali e curiosando nei giardini incantati delle case: acchiappasogni appesi agli alberi, scacciapensieri tintinnanti sotto il portico, le decorazioni di Halloween sparse per il giardino, le lanterne tra i fiori, gli scheletri e le zucche disseminati nelle aiuole, le piccole Free Little Library che ammiccano tra le siepi, i cuscini sparsi sulla veranda e le sedie a dondolo sul retro. Tra un isolato e l’altro, le sagome improbabili delle chiese metodiste, battiste, la casa dei Testimoni di Geova e, a pochi passi da me, anche un anonimo centro massonico. Tutto immerso nella più assoluta tranquillità, garantita da qualche cittadino particolarmente solerte, a capo delle ronde del vicinato, organizzate per tenere alla larga personalità sospette. Garanzia che fa automaticamente di me, in qualità di unica persona in città a muoversi a piedi, spiando senza pudore in ogni casupola di legno per strada, uno degli individui più sospetti in circolazione.

lights

Uscire di casa, scegliere una direzione, continuare a camminare fino al limite ultimo della freeway, è stato il mio antidoto contro la malinconia del viaggiatore, che mi è stata servita di sorpresa, una mattina, insieme a una tazza di caffè americano. Una sensazione che pensavo d’aver dimenticato. E invece, quando si viaggia da soli, come scriveva Maria Perosino, ci si espone al rischio di guardarsi allo specchio e chiedersi il senso di queste intossicazioni da solitudine, il perché della lontananza. E, se non si è Chatwin, le risposte rischiano di diventare imbarazzanti.

Ho sperimentato ancora una volta, sotto il sole di Los Angeles, che alla distanza e agli arrivederci non ci si abitua mai, che fanno male sempre allo stesso modo, che possono mandare in confusione e prendere strane direzioni.

Allora ho preso fiato, mi sono guardata intorno e ho fatto quello che so fare meglio: fingermi una del posto, mescolarmi tra gli altri, parlare con gli sconosciuti, con una disinvoltura che non m’appartiene e che mi costa non pochi sforzi. Come suggeriva Albert Camus, mi sono seduta al bancone di un bar e ho ordinato un caffè.

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Sono andata a comprare la verdura, il formaggio, le marmellate e i saponi fatti in casa al mercato settimanale del venerdì sera. Ho seguito una lezione di yoga e la moglie di Scott, l’insegnante coreano, mi ha coinvolta in una lettura magnetica dell’aura. Ho conosciuto il proprietario della fumetteria del quartiere e la cartomante della città, che mi ha ricevuta in uno stanzino ricoperto di moquette, tra vergini in lacrime e cristalli, con la statua di Gesù alle sue spalle, che stringeva tra le dita di gesso una banconota da venti dollari. Ho la tessera della biblioteca cittadina. Ho preso la bicicletta e sono andata a fare un giro al Memorial Park di Duarte e ho scorto un coyote che s’aggirava tra le lapidi, puntando gli scoiattoli. Sono andata a bere una birra artigianale a Highland Park con Danny, originario della Virginia, che mi ha raccontato come a Los Angeles si respiri il profumo dei sogni spezzati e delle ambizioni fallite. Ho trovato il mio caffè preferito e il sushi take-away di fiducia. Ho mangiato un grilled cheese al drive-through di In&Out, il fast food dove si ordina, si paga e volendo si consuma esclusivamente in auto, come Kevin Spacey in American Beauty. Ho il frigo insolitamente pieno e c’è dentro anche un cartone di pizza, come nei telefilm.

La sera, mi addormento sfinita a mezzanotte. Forse sono le nove ore di fuso, che ancora non ho recuperato, o forse il mettere a fuoco lentamente il perché delle cose. L’inizio di una vita diversa dall’altra parte del mondo. O forse sono solo stanca, di quella stanchezza piena e senza punti interrogativi, dove chiudi gli occhi e, a volte, non fai nemmeno in tempo a spegnere la luce.

E poi oggi è anche venerdì, mezzanotte è passata da un’ora e mi sono ripromessa di tenere fede a un unico buono proposito. Per questo fine settimana, come scriveva Salinger, “cerchiamo semplicemente di divertirci. Cioè, per una volta, se possibile, vediamo di non analizzare tutto fino alla pazzia, nemmeno me”.

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Images © Adrian Tomine

Soundtrack: Cigarettes After Sex, Nothing’s Gonna Hurt You Baby

7 pensieri su “Life in Progress

  1. Ilaria Moretti ha detto:

    V. cara.
    Che dire. Questi sono i viaggi e l’andare. Il vortice – come lo chiamo io – della riflessione su di sé. Mi piace soprattutto la fine, l’idea di poter dire stop per qualche momento alla vana ricerca di un perché, di una via disperata e pazza che ricongiunga a se stessi. Forse già te lo scrissi tempo fa: un giorno, guardando indietro, nella follia di tante corse, paesaggi, lingue e viaggi, tu incontrerai la coerenza di un percorso tuo, la bellezza lucida di una ricerca non reiterata ma metodica e precisa che ora, ahimé, è impossibile. I tasselli si costruiscono con lentezza, ma già lo vedi: i tuoi occhi imbevuti di nuovo trovano altre materie, altre parole per dire l’indicibile. La vita è nel qui e ora solo che quando ce ne accorgiamo è troppo tardi. Buona America, dolce Valeria. I.

    • Valeria ha detto:

      Cara Ilaria,
      ti rispondo sull’orlo di un nuovo viaggio, che mi ha riportato indietro o forse no. So solo che i tasselli si ricompongono, che sono riuscita, o almeno ho iniziato, ad unire i puntini, un disegno sta venendo fuori, forse, anche se fatico a metterlo fuoco, a intuirne la dimensione, la portata, le conseguenze. Tutto ricomincia. Ti abbraccio amica mia.

      V.

  2. Valentina Chiefa ha detto:

    Ho letto due volte. La prima volta pensando a te, immaginando fosse uno dei messaggi in cui mi racconti come stai. La seconda volta solo “vedendo”, e lasciandomi trasportare da quello che hai scritto, come in un libro. Come in un libro, un racconto, già. La vita si mescola alla letteratura, la verità all’immaginazione. Cosa è reale e cosa non lo è? Non certo le strade o gli scoiattoli, nemmeno il caffè. Nemmeno il venerdì, la pizza dentro il frigo o la cartomante. Vere sono le emozioni, basta. Sono tutto quello che contano veramente. E allora vale, divertiti, mangia, fuma, pensa, leggi, sorridi, cammina, siediti, guarda, assaggia, bacia (molto), bevi, confonditi e raddrizzati. È tutto quello che conta. Ti abbraccio. Assai, molto, tantissimo. Ti penso. Ciao vale. v.

    • Valeria ha detto:

      Cara Vale,
      non immagini quante volte mi capiti di pensare a te, alle chiacchierate di fronte ai bicchieri di vino rosso, ai sogni. Sono tornata a chiedermi cosa è reale e cosa non lo è, quando un imprevisto mi ha riportato a casa, a ricominciare tutto dall’inizio, a rivedere le mie priorità. Il cambiamento ha preso una strada e non so dove mi porterà. Ti abbraccio e spero di rivederti presto.

      Vale

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